Miniatura Re Ferdinando II Borbone Due Sicilie

Miniatura Re Ferdinando II Borbone Due Sicilie

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Rarissima miniatura ovale su avorio raffigurante il ritratto di Sua Maestà Re Ferdinando II di Borbone delle Due Sicilie sul letto di morte, racchiusa entro custodia in oro 18ct, recante incise all’esterno, sul fronte la lettera F. ed il numero romano II sormontati da una corona e sotto la data della morte il 22 Maggio 1859. Sul retro è incisa una croce con il motto “Vulnera Tua Merita Mea” (Le tue sofferenze sono la mia forza).

Dimensioni della custodia cm 7(5.5)x5 – la sola miniatura all’interno cm 4.8×3.8.

Stato di conservazione eccellente commisurato all’epoca.

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Ferdinando Carlo Maria di Borbone (Palermo, 12 gennaio 1810 – Caserta, 22 maggio 1859), chiamato anche Re Bomba[, è stato re del Regno delle Due Sicilie dall’8 novembre 1830 al 22 maggio 1859.

Succedette al padre Francesco I in giovanissima età, e fu autore di un radicale processo di risanamento delle finanze del Regno. Sotto il suo dominio, il Regno delle Due Sicilie conobbe una serie di riforme burocratiche e innovazioni in campo tecnologico, come la costruzione della Ferrovia Napoli-Portici, la prima in Italia, e di impianti industriali avanzati, quali le Officine di Pietrarsa. Diede inoltre un grande impulso alla creazione di una Marina Militare e mercantile, attraverso le quali aumentò il livello degli scambi con l’estero.

A causa però del suo temperamento reazionario e del perdurante contrasto con la borghesia liberale, che culminò nei moti rivoluzionari del 1848, il suo regno, dopo un breve esperimento costituzionale, fu segnato fino al termine della sua carica da una progressiva stretta in senso assolutista, che lo portò ad accentrare fortemente su di sé il peso dello Stato, oltre ad attuare una politica economica parsimoniosa e paternalista che lasciò il reame, negli ultimi anni, in una fase statica. Alla sua morte, il Regno delle Due Sicilie passò al figlio Francesco II, che lo avrebbe perso in seguito alla Spedizione dei Mille e l’intervento piemontese.

Ferdinando II di Borbone nacque a Palermo il 12 gennaio 1810, primogenito di Francesco I delle Due Sicilie e della sua seconda moglie, Maria Isabella di Spagna: nelle vene di Ferdinando scorreva quindi il sangue delle più importanti dinastie europee, i Borbone di Francia, Spagna e Napoli e gli Asburgo-Lorena. Ricevette un’educazione umanistica e religiosa sotto l’abate Giuseppe Capocasale e una solida preparazione politica e militare nelle accademie dove trascorse gran parte della giovinezza.

Salito al trono del Regno delle Due Sicilie l’8 novembre 1830, ad appena vent’anni, mirò subito alla riorganizzazione dello Stato, alla riduzione del debito pubblico e alla pacificazione delle parti sociali ancora in tumulto dopo il periodo napoleonico. Infatti, con una serie di regi decreti, il nuovo re ridusse l’opprimente burocrazia degli uffici statali e provvide alla riorganizzazione del bilancio, che al momento della sua ascesa al trono era in passivo di 2.768.557 ducati: ridusse del 50% la sua lista civile, abolì le riserve di caccia reali di PersanoVenafroCalvi e Mondragone, abbassò lo stipendio annuo dei ministri a 4.500 ducati, distribuì fra cinquanta comuni le terre destinate al pascolo dei regi armenti, abolì la tassa sul macinato e ridusse i molti privilegi della nobiltà.

Inoltre, Ferdinando II condonò la pena a molti detenuti politici, mise nel governo uomini capaci come il marchese Giovanni D’Andrea al ministero delle Finanze e Nicola Parisio a quello della Giustizia, espulse dall’amministrazione molti elementi di origine sanfedista, e reintegrò in servizio i migliori ufficiali e uomini politici che avevano servito Gioacchino Murat e che erano stati sospesi durante i moti del 1820. Oltre a questo, il sovrano mise mano alla riforma dell’esercito, per meglio garantire la sicurezza del Regno e parare eventuali minacce esterne: impose la standardizzazione delle uniformi, che erano molto composite e derivate dalle varie dominazioni che il Meridione aveva subito (austriaca, francese, inglese), migliorò i quadri dell’ufficialità e aumentò il numero di effettivi, portandoli a ben 80.000 uomini in tempo di guerra.

Tutti i liberali italiani accolsero con favore le riforme del giovane sovrano, credendo che potesse mettersi alla testa del movimento unitario, ma ben presto Ferdinando deluse le loro aspettative. Infatti, allo scoppiare dei Moti del 1831 in Emilia e Romagna, fatto che provocò l’intervento austriaco a favore dei sovrani spodestati, il re napoletano non solo accolse con favore la notizia dell’intervento di Vienna, ma licenziò e fece esiliare il ministro dell’Interno Nicola Intonti, che aveva espresso timide simpatie per i moti carbonari nell’Italia centrale. Quando poi, nel gennaio del 1832, scoppiò una piccola insurrezione ad opera dell’associazione patriottica mazziniana Giovine Italia in Terra di Lavoro, il sovrano borbonico si dimostrò implacabile: tutti i responsabili furono catturati e condotti a Capua dinanzi ad una corte militare, che ne condannò tre a morte e altri ventotto a pene minori. Anche se poi per regio decreto le condanne furono commutate, i detenuti dovettero subire oltraggi e torture dalla polizia del commissario Morbillo.

Il 7 aprile 1833, con un corteo di tre carrozze, Ferdinando partì da Napoli accompagnato dalla moglie, la regina Maria Cristina di Savoia e dalla regina madre Maria Isabella di Borbone-Spagna per visitare le province interne del regno: lungo la via di Sala e Lagonegro giunse in Calabria, visitando CastrovillariCosenza, Monteleone (l’attuale Vibo Valentia), TropeaNicoteraBagnara e Reggio Calabria, da dove si imbarcò per la Sicilia, visitando MessinaTrapani e Palermo. Tornato sulla terraferma, il corteo reale sbarcò a Bagnara, poi visitò la reale fabbrica di armi della Mongiana, si fermò a Catanzaro, e dopo aver percorso la costa ionica calabrese, visitò Taranto e Lecce. Infine, dopo una visita in Capitanata, nella provincia di Avellino e una sosta di due giorni alla Reggia di Caserta rientrò nella capitale il 6 maggio. Durante questo viaggio Ferdinando compì numerosi atti: migliorò le prigioni, emanò indulti, decretò la costruzione di ponti e strade, corresse gli arbitrii dei pubblici ufficiali ed elargì numerosi soccorsi ai danneggiati del terremoto che, nel marzo del 1832, aveva distrutto molti paesi del bacino del Coraci e del Neto. Tuttavia, di riforme politiche, nemmeno l’ombra: Ferdinando infatti pensava che la sua presenza intimorisse i sudditi, mentre per meglio puntellare il regime assoluto di cui si sentiva incarnazione, rinforzava i presidi militari e aumentava la vigilanza poliziesca.

Questo non bastò di certo a fermare i vari complotti che i liberali fomentavano per far scoppiare insurrezioni popolari, complotti che il re e i suoi ministri repressero duramente, spesso però commutando le pene ai responsabili. In politica estera, Ferdinando fu un geloso baluardo contro le ingerenze delle potenze straniere negli affari interni napoletani. Quando infatti, sul finire del 1833 il papa Gregorio XVI chiese che anche nel Regno delle Due Sicilie fossero applicati gli editti penali contro la Giovine Italia emanati sia nello Stato Pontificio che in Lombardia, il re rispose che, pur essendo avverso ai liberali, quei provvedimenti non risolvevano il problema, intaccandolo solo alla superficie.

Allo stesso tempo propose al pontefice di farsi promotore di una Lega di Stati italiani, a carattere difensivo e offensivo, contro le interferenze interne ed esterne delle potenze straniere. Gregorio rifiutò, ma prima che la risposta del suo segretario di Stato, cardinale Bernetti, giungesse a Napoli, Ferdinando aveva comunicato le stesse proposte anche con il granduca Leopoldo II di Toscana e con il re sardo Carlo Alberto di Savoia, oltre all’inviato dell’imperatore austriaco Leibzeltern. Il cancelliere austriaco Klemens von Metternich, temendo che il sovrano borbonico volesse avere, tramite la lega, la supremazia italiana e il possesso di qualche terra pontificia, chiese ufficialmente, il 7 gennaio 1834, lo schema della nuova alleanza, mentre le corti di Berlino e San Pietroburgo fecero sapere che non avrebbero accettato modifiche ai trattati del Congresso di Vienna. L’idea della lega italica fu dunque accantonata, e Ferdinando divenne da quel momento inviso ai sovrani dell’Italia settentrionale.

Dissensi interni e vertenze internazionali

Nel gennaio del 1836, subito dopo la nascita del principe ereditario Francesco, scoppiò in Sicilia e in Calabria un’epidemia di colera, durata per tutto l’anno 1837, la cui diffusione la popolazione locale, per ignoranza e superstizione, attribuì a funzionari governativi e poliziotti; per questo motivo si ribellò, provocando dei focolai di insurrezione in molti paesi, di cui fecero le spese i presunti “untori”, tra cui numerosi pubblici ufficiali borbonici. La reazione di Ferdinando II fu rapida e spietata: inviò in Sicilia, con poteri straordinari, il marchese Del Carretto, ex-liberale famoso per aver stroncato i Moti del Cilento del 1828, che ripristinò l’ordine con metodi brutali e oppressivi, mentre in Calabria fu inviato l’attendente Giuseppe De Liguoro, il quale, evocando la legge contro i reati politici del 24 maggio 1826, fece processare a Catanzaro i responsabili delle insurrezioni locali, dei quali cinque furono condannati a morte, due a diciannove anni di carcere e gli altri a pene minori.

Nel 1838, dopo aver sedato le agitazioni interne e compiuto un altro viaggio nelle province, Ferdinando compì degli atti importanti di buon governo: rimosse Del Carretto dalla Sicilia e vi inviò come luogotenente generale il duca Onorato Gaetani di Laurenzana, concesse l’indulgenza agli imputati politici dell’isola, tranne che ai promotori, riordinò alcuni rami della pubblica amministrazione, cercò di frenare il ricorrere al duello con una legge del 21 luglio 1838, che equiparava le ferite e gli omicidi commessi nei duelli a delitti comuni e negava ai partecipanti la sepoltura in terra consacrata, e aderì alla lega degli Stati che si erano accordati per porre fine alla tratta degli schiavi neri. Nello stesso anno però, sorse una complicata questione diplomatica con il Regno Unito, che arrivò a sfiorare la guerra tra Napoli e Londra per ragioni economiche: sin dal 1816, infatti, il governo inglese con un trattato di commercio con quello napoletano, aveva il monopolio delle miniere siciliane di zolfo necessario, tra l’altro, alla fabbricazione della polvere da sparo.

Poiché nel corso degli anni la produzione era notevolmente aumentata, il sovrano borbonico pensò di trarne profitto stipulando un accordo commerciale con la compagnia francese Taix et Aychard, alla quale si consentiva di comprare non oltre seicentomila cantari (unità di misura corrispondente a 90 kg) di zolfo all’anno, in cambio della costruzione di alcune vie e del risarcimento parziale dei possidenti danneggiati, mentre il re otteneva una tassa di 400.000 ducati annui, ventimila cantari di zolfo per le polveriere militari e un dazio di 4 carlini per ogni quantitativo di zolfo estratto in più della quantità stabilita. Questo accordo, malgrado le proteste del governo inglese, fu firmato il 10 luglio di quell’anno, senza nemmeno informare il ministro degli Esteri, il principe di Cassaro. Tutto l’anno 1839 fu scandito dal reciproco scambio di discussioni, lettere e lagnanze tra il governo napoletano e quello inglese, che chiedeva la scissione del contratto, inviando a Napoli il legato straordinario Mac Gregor, che insieme all’incaricato Kennedy avviò negoziati per tutelare i mercanti inglesi che avevano investito forti somme nelle zolfare siciliane.

Anche il principe di Cassaro si dimostrò favorevole e insieme agli inviati inglesi presentò al re lo schema di un trattato commerciale equo e vantaggioso per entrambe le parti. Poiché Ferdinando tentennava, il primo ministro Lord Palmerston diede istruzioni all’ambasciatore inglese a Napoli Temple di rompere le relazioni tra i due paesi se non si fosse giunto alla firma del trattato. Alle rassicurazioni del sovrano Londra si quietò, tanto che il Borbone poté inaugurare, il 3 ottobre 1839, la Ferrovia Napoli-Portici, prima linea ferroviaria italiana, lunga poco più di 7 km, che collegava Napoli con Portici. Questa linea era solo il progetto di un tracciato ferroviario più ampio, che si sarebbe concretizzato negli anni successivi: il 1º agosto 1842 fu infatti aperta la tratta che andava dalla capitale a Castellammare di Stabia, mentre nel 1844 venne inaugurata la ferrovia che si diramava fino a Pompei, Angri, Pagani e Nocera Inferiore.

Oltre a questo, Ferdinando II introdusse quello stesso anno anche alcune innovazioni come l’illuminazione a gas della capitale. Ben presto però le relazioni con l’Inghilterra giunsero al punto di rottura, quando nel 1840 il re interruppe d’improvviso i negoziati per il trattato di commercio, provocando le dimissioni del ministro degli Esteri, il principe di Cassaro, che il re confinò in Puglia, sostituendolo con Fulco Ruffo di Calabria, principe di Scilla. Il governo inglese reagì inviando il 20 marzo una squadra navale, comandata dall’ammiraglio Stopford, nel golfo di Napoli, per far valere le proprie ragioni. Ferdinando allora rispose schierando reparti militari in vari punti del golfo, ordinando alle artiglierie dei castelli intorno alla città di tenersi pronte ad aprire il fuoco e sequestrando le navi inglesi presenti nel porto, in risposta al dirottamento inglese su Malta di alcuni mercantili napoletani. Sembrava che fra Napoli e Londra stesse per scoppiare la guerra, quando il governo francese si pose a mediatore, riuscendo a far passare, nel luglio di quell’anno, un progetto che aboliva il privilegio dato alla compagnia francese sullo zolfo e costituiva una commissione mista anglo-napoletana per risarcire i danneggiati.

Reagì allora isolandosi sempre di più sul piano internazionale e accentuando il regime poliziesco all’interno del regno: prova ne sono le repressioni dei moti liberali del 1844 (spedizione dei Fratelli Bandiera, fucilati il 25 luglio nel vallone di Rovito, presso Cosenza, insieme ad altri sette compagni) e del 1847 (Rivolta di Gerace), entrambi falliti per mancanza di seguito popolare. E, se nel 1845 permise che a Napoli si tenesse il settimo congresso degli scienziati italiani, seguendo l’esempio del Re di Sardegna e del Granduca di Toscana, Ferdinando II non vide di buon occhio né l’elezione, il 16 giugno 1846, al pontificato di Pio IX (che passava per un liberale e aveva concesso delle limitate riforme che suscitarono l’entusiasmo dell’opinione pubblica italiana), né la proposta di entrare, nel 1847 (l’anno in cui fondò la “colonia”, cioè la frazione, San Ferdinando di Puglia), in una lega doganale tra vari Stati italiani, promossa dal papa, dal re di Sardegna e dal Granduca di Toscana; il rifiuto del re napoletano porterà alla decadenza del progetto stesso. Sicché Ferdinando, non cogliendo lo spirito riformatore che in quegli anni vari sovrani italiani adottavano per rendersi più popolari, si trovò impreparato a fronteggiare la crisi che di lì a poco avrebbe messo a soqquadro l’Europa.

Il 1848

L’ondata rivoluzionaria che scosse l’Europa nel 1848 ebbe il via dal Regno delle Due Sicilie. All’inizio dell’anno scoppiarono sommosse in tutto il regno e in modo particolare in Sicilia, dove le insurrezioni popolari assunsero quasi subito le caratteristiche di ribellione indipendentista: in quel frangente Ferdinando II, primo fra i Sovrani italiani, concesse una Costituzione del Regno delle due Sicilie il 29 gennaio dello stesso anno, redatta dal liberale moderato Francesco Paolo Bozzelli e promulgata il successivo 11 febbraio, la terza carta costituzionale promulgata nel regno, dopo lo statuto costituzionale di Palermo del 1812 e quello di Napoli del 1820 (dati entrambi da Francesco I nella qualità di Vicario del padre Ferdinando I).

Il Governo venne affidato al Duca di Serracapriola, che avrebbe dovuto provvedere alla promulgazione delle leggi per l’applicazione della Costituzione, si mosse, però, con molto ritardo. L’art. 89 del testo costituzionale prevedeva, infatti, l’abrogazione di tutte le disposizioni e i decreti che fossero stati in contrasto con i principi della Carta. Era quindi necessario preparare immediatamente norme adatte al nuovo assetto istituzionale, altrimenti, il paese sarebbe precipitato nel disordine.

Sia per negligenza dovuta ad errori di calcolo politico sulla situazione interna del Regno, sia per inesperienza, si promulgarono soltanto due leggi. La legge elettorale il 29 febbraio «pessima e malissimamente concepita, non piccola cagione dei disordini che poscia contristarono il regno» e quella sulla guardia nazionale il 13 marzo, mentre la legge per regolare la libertà di stampa non fu mai fatta. Il governo non riusciva materialmente a mantenere l’ordine.

Lo scenario politico, nel frattempo, si era modificato, poiché, il 27 marzo in Sicilia il legittimo sovrano fu dichiarato decaduto, benché Ferdinando II avesse concesso, tramite la Costituzione (art. 87) e i decreti d’applicazione dello Statuto, totale autonomia all’Isola, e fu costituito un nuovo Stato. Il 24 febbraio fu proclamata la repubblica in Francia, mentre nel marzo erano insorte Milano e Venezia e il Piemonte aveva dichiarato guerra all’Austria.

Le proposte Saliceti

L’opinione pubblica liberale, convinta che i ministri fossero completamente incapaci di gestire la situazione fece pressioni sul re affinché li licenziasse e così si giunse ad un rimpasto di governo. Fu chiamato a ricoprire la carica di ministro della giustizia, uno degli esponenti radicali più famosi del periodo, Aurelio Saliceti, che propose un programma di governo in quattro punti: abolizione della camera dei Pari i cui membri erano nominati a vita dal re e giudicata dai liberali troppo legata agli interessi del Sovrano, pieni poteri alla camera dei Deputati per provvedere a una modifica della Costituzione, modifica radicale della legge elettorale ed invio di truppe sulla linea del Po in aiuto al Piemonte.

Le proposte del Saliceti furono accolte in modo benevolo da gran parte dei liberali; infatti il dibattito sulla partecipazione alla guerra d’indipendenza nazionale e la modifica della Costituzione erano diventati i nodi centrali della politica napoletana. I liberali erano fermamente convinti che solo con la concessione di maggiori diritti alla rappresentanza nazionale si sarebbe potuto compensare l’enorme potere che lo Statuto garantiva al re.

Ferdinando II, tuttavia, che aveva concesso la Costituzione soprattutto per pacificare e stabilizzare la situazione politica interna, si rifiutò di sottoscrivere il programma del suo ministro ritenuto troppo radicale e foriero di nuovi disordini politici, licenziò il Saliceti e tutto il governo.

Governo Troya

Il 3 aprile venne formato un nuovo ministero guidato dal neoguelfo Carlo Troya, composto principalmente da liberali moderati che, d’accordo con il re, stilarono un programma in dieci articoli, meno radicale di quello del Saliceti, per dare applicazione alla Costituzione[. Si stabilì che la camera dei Pari sarebbe stata composta da 50 membri (art. 4), si fissò a 240 ducati il censo di eleggibilità, fissato il giorno per l’elezione della camera dei Deputati e stabilito in 164 il numero di membri da eleggere.

All’apertura del Parlamento si decise che le due camere, d’accordo con il re, avrebbero avuto facoltà di svolgere la Carta, cioè la possibilità di modificarla, in riferimento alle disposizioni che riguardavano la camera dei Pari (art. 5). Tuttavia c’è da rilevare come Ferdinando II desse dell’art. 5 una lettura restrittiva poiché, nelle sue intenzioni, una modifica costituzionale non avrebbe dovuto portare alla soppressione della camera alta, come invece desideravano i deputati, ma solo ad una limitazione delle sue competenze.

Il programma costituzionale stabilì, infine, la partecipazione delle Due Sicilie alla guerra d’indipendenza (artt. 7-10). Il 7 aprile fu dichiarata guerra all’Austria e per l’occasione si modificò la bandiera del Regno aggiungendovi il tricolore italiano. Il 18 aprile si tennero le elezioni, ma l’affluenza alle urne fu scarsa. La maggioranza dei seggi fu conquistata dai liberali moderati. La cerimonia d’apertura del Parlamento, fissata per il primo maggio, fu posticipata al 15, per consentire ai deputati che venivano dalle province più lontane di raggiungere comodamente Napoli.

La vigilia della cerimonia, nella sala comunale del palazzo di Monte Oliveto, si raccolsero in seduta preparatoria, sotto la presidenza del Cagnazzi, i deputati già presenti nella capitale. La formula di giuramento alla Costituzione, che il giorno successivo doveva essere prestata dal re e dai deputati, fu il primo argomento di discussione posto all’ordine del giorno. Ci furono accesi dibattiti e la camera, ritenendo insufficiente il testo scritto da Ferdinando II per i deputati, decise di modificarlo, compilandone un altro in cui si decise che si sarebbe giurato di «Osservare e mantenere lo Statuto politico della nazione con tutte le riforme e le modifiche stabilite dalla rappresentanza nazionale, massimamente per ciò che riguardava la Camera dei Pari». Il nuovo giuramento, accettato dal ministero, fu sottoposto all’approvazione del re, che lo rifiutò, infatti, egli sosteneva che i deputati non avrebbero dovuto giurare su una formula in cui era prevista un’eventuale modifica del testo costituzionale esclusivamente da parte della camera, poiché si sarebbero violati sia la Costituzione che l’art. 5 del programma di attuazione.

Il re, di fronte alla risolutezza dei deputati, nella notte tra il 14 e il 15 maggio, trasmise alla camera un’altra formula di giuramento: «Prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà al re costituzionale Ferdinando II. Prometto e giuro di compiere con il massimo zelo e con la massima probità ed onoratezza le funzioni del mio mandato. Prometto e giuro d’essere fedele alla Costituzione quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d’accordo con il re, massimamente intorno alla Camera dei Pari, com’era stabilito dall’art. 5 del programma del 3 aprile». Il testo fu approvato dalla maggioranza dell’assemblea. Non di meno, si erano diffuse voci, tra i membri della fazione più radicale della camera, circa la presenza di truppe regie nei pressi del Parlamento. La notizia era completamente falsa e gli stessi emissari del Sovrano, giunti nel Palazzo di Monte Oliveto per consegnare ai deputati il nuovo giuramento, dichiararono di essere disposti a condurre una delegazione di parlamentari a verificare l’inconsistenza di quelle accuse. Infatti, per evitare di alimentare maggiormente la già elevatissima tensione politica con la presenza di truppe per le strade della città, il re aveva dato ordine di consegnarle nelle caserme. I deputati radicali si rifiutarono di credere agli inviati di Ferdinando II e iniziarono, con l’aiuto di una vasto numero di popolani, giunti in larga maggioranza da fuori Napoli a loro seguito, e di alcuni reparti della guardia nazionale, la costruzione di barricate a protezione del Parlamento. A questa notizia il re mobilitò le truppe che occuparono i punti nevralgici della città.

La mattina del 15 maggio i parlamentari dell’ala moderata, la maggioranza, fecero pubblicare un proclama in cui esortavano i cittadini armati a tornare alle loro case. Tuttavia, i deputati anti realisti e rivoluzionari, come Giovanni La Cecilia e Pietro Mileti, continuarono a sostenere che il re non fosse realmente intenzionato a modificare la Costituzione, poiché non avrebbe permesso alla rappresentanza nazionale di abolire la camera dei Pari e ritenevano che non ci sarebbe stata nessun tipo di riforma, finché la camera dei Deputati non avesse avuto il totale controllo del potere legislativo[. Il solo mezzo per dimostrare la piena autonomia dei deputati sarebbe stato l’approvazione da parte del re del giuramento redatto dalla camera.

Un’ordinanza regia fissò per le due pomeridiane del 15 maggio l’apertura del parlamento e si confermò la formula di giuramento concordata con la maggioranza dei deputati. Le frange più estremiste dei rivoluzionari, riunitesi a Palazzo Orsini di Gravina, fecero sapere al ministero che avrebbero tolto le barricate, consentendo al Parlamento di riunirsi, purché Ferdinando II avesse allontanato le truppe a trenta miglia dalla capitale, consegnato le fortezze cittadine alla guardia nazionale e accettato, senza riserve, la prima formula di giuramento. Il governo, pur di evitare lo scontro, accolse le richieste, mentre il re le respinse, appellandosi alle prerogative che gli affidava la Costituzione: era il garante dell’ordine pubblico e capo supremo delle forze armate, non avrebbe mai ceduto alle pressioni e ai ricatti dei deputati più rivoluzionari che sobillavano la piazza[.

I moti del 15 maggio e lo scioglimento del parlamento

I ministri, fallita la trattativa, diedero in blocco le dimissioni, mentre i deputati dell’ala moderata tentarono ancora una volta, senza successo, di far demolire le barricate. Verso le undici del mattino, infatti, una fucilata presso la chiesa di S. Ferdinando, fu il segnale di inizio della lotta. Sulla reggia fu issata la bandiera rossa e le artiglierie cominciarono a bombardare dalle fortezze. Le cannonate distrussero diciassette barricate innalzate nella sola via Toledo  e altre nelle strade limitrofe. Alcuni palazzi furono distrutti. Le truppe mercenarie svizzere e quelle regolari napoletane, protette dai cannoni dei forti e affiancate da alcune batterie da campagna, diedero l’assalto alle barricate, espugnandole una dopo l’altra; quindi assalirono le case sospette che più tardi furono saccheggiate dai lazzari che percorsero le vie della città al grido di «Viva il re ! Morte alla Nazione !».

All’inizio della rivolta i deputati radicali costituirono un comitato di salute pubblica, presieduto dal Cagnazzi e formato dal Zuffetta, Giardini, Bellalli, Lanza e Petruccelli, non riuscendo tuttavia a far nulla: la battaglia ebbe il suo corso. L’ammiraglio francese Baudin, presente a Napoli con la sua flotta, avrebbe potuto farla cessare, ma si rifiutò. Lo scontro durò fino alla tarda serata del 15 e la resistenza dei liberali fu vinta. Furono distrutte le barricate e sciolto il comitato di salute pubblica. Non si seppe mai il numero dei morti di quella giornata, le cifre date nel corso degli anni dagli storici oscillano da un minimo di duecento ad un massimo di duemila vittime, tra le quali vi furono lo scrittore Luigi La Vista e il filosofo Angelo Santilli. Terminata la battaglia, un capitano degli svizzeri si presentò dai deputati con il decreto di scioglimento dell’assemblea firmato dal re. Il giorno successivo il Sovrano licenziò il governo, formandone uno nuovo e ordinò lo scioglimento della guardia nazionale della capitale. Fu decretato a Napoli lo stato d’assedio ed istituita una commissione d’inchiesta sui reati commessi contro la sicurezza dello Stato dal 10 maggio in poi. Il 17 maggio venne notificato lo scioglimento della camera dei Deputati, benché questa non si fosse ancora costituita, perché, sostenne Ferdinando II: «si era assunta un potere arbitrario e illegittimo, sovversivo d’ogni principio d’ordine civile[».

La Costituzione fu mantenuta. Furono indetti i comizi elettorali per il 24 maggio e si fissarono nuove elezioni per la camera il 15 giugno. Il nuovo ministero, guidato dal principe di Cariati, modificò nuovamente la legge elettorale, prevedendo una soglia censitaria più bassa: 120 ducati per gli eleggibili e 12 per gli elettori, sperando così di accontentare, con una legge più “democratica” i liberali più radicali.

Nuovo parlamento

Nel periodo successivo ai moti del 15 maggio nuove camere svolsero una modesta attività, riuscendo, tuttavia, a formulare alcune leggi, fra cui ricordiamo il riassetto dell’ordinamento comunale e provinciale, l’affrancazione dei canoni del Tavoliere di Puglia, l’organizzazione della Guardia Nazionale, l’inamovibilità della magistrati e il miglioramento delle prigioni. I deputati desideravano una modifica della Costituzione in senso più liberale, in conformità a quanto era stato previsto dal programma per l’attuazione dello Statuto.

Il primo luglio fu convocato il Parlamento napolatano: la sua composizione non cambiò di molto rispetto al precedente. Le Camere aprirono regolarmente i lavori: la prima discussione affrontata dal nuovo Parlamento riguardò una relazione programmatica del re, che fu approvata il primo agosto dalla camera dei Deputati ed il 5 da quella dei Pari. Un gruppo di deputati, tuttavia, ricominciò un duro ostruzionismo verso Ferdinando II rimproverandogli lo scioglimento della precedente camera e riaffermò, contro l’opinione del re, la sua volontà di continuare la guerra all’Austria. Conseguenza dei fatti di maggio, infatti, fu il richiamo delle truppe inviate sul Po agli ordini del generale Pepe e della flotta da guerra nell’alto Adriatico. Questo ebbe effetti non trascurabili sull’esito del conflitto, perché anche la Toscana e lo Stato Pontificio iniziarono a ritirare le loro truppe, lasciando il Piemonte solo contro l’Austria. Inoltre, la rappresentanza diplomatica, inviata a Roma per discutere sulla formazione di una Costituente e di una lega degli Stati italiani, fu ritirata.

Repressione della secessione siciliana

Intanto il 10 luglio 1848, si proclamo uno Statuto costituzionale del nuovo Regno di Sicilia, che ricalcava in parte quella del 1812, con l’abolizione della Camera dei Pari con la sostituzione di un senato elettivo, e con la scelta del regime monarchico costituzionale. L’esercito borbonico di Carlo Filangieri principe di Satriano, che aveva mantenuto il controllo della Real cittadella, attaccò la città di Messina già i primi giorni di settembre del 1848. La città fu sottoposta a pesantissimi bombardamenti da parte dell’artiglieria borbonica, incendiando o riducendo in macerie interi quartieri. Ferdinando II, che a causa del bombardamento di Messina fu soprannominato “re bomba”, festeggiò la riconquista di Messina nella sua reggia a Caserta, mentre i siciliani chiesero una tregua che fu concessa il 18 settembre. L’assedio di Messina valse al sovrano l’epiteto di “re bomba”. Nella battaglia finale il bombardamento a tappeto dalla Cittadella borbonica sulla città si protrasse ininterrottamente per cinque giorni. Anche se tale episodio è stato rivalutato dallo storico e saggista Harold Acton, il quale afferma che molto probabilmente tale epiteto non sia nato per il bombardamento di Messina(non suffragata da fonti sicure) bensì per la battaglia di Palermo avvenuta il 15 gennaio del 1848, La stessa Relazione delle operazioni militari di Messina nel settembre 1848, pubblicata a Napoli nel 1849 a cura dello stato maggiore borbonico, ammette che il bombardamento ebbe effetti devastanti su Messina. A tale fonte si rifà anche lo scrittore Giuseppe Campolieti, autore tra l’altro di una biografia di Ferdinando II.[

Alla fine di febbraio del 1849 si offrì alla Sicilia, per porre termine alla secessione, una Costituzione diversa rispetto a quella napoletana, con un parlamento separato e l’abolizione della promiscuità d’impiego, nella pubblica amministrazione, tra siciliani e napoletani. Il nuovo Statuto proponeva anche l’amnistia per i reati politici. Ciò non fu accettato dai siciliani che, per bocca del loro capo Ruggero Settimo, respinsero le proposte del re. Riprese le ostilità il 19 marzo 1849, il 7 aprile cadde Catania. Il 15 maggio 1849 le truppe napoletane, dopo numerosi successi, entrarono a Palermo, ponendo fine alla secessione dell’Isola. I leader della rivoluzione andarono in esilio e Ferdinando II nominò Filangieri duca di Taormina e luogotenente generale della Sicilia.

Fine dell’esperimento costituzionale

Il 6 febbraio 1849 ci fu la definitiva crisi istituzionale. Il ministro delle finanze fece un discorso sul bilancio dello Stato con la presentazione della relativa legge tributaria formulata dal ministero. I deputati si opposero affermando che per redigere norme in materia fiscale sarebbe occorso un voto della camera sul progetto di legge del governo, così com’era previsto dall’art. 38 della Costituzione. I deputati sostennero che per quel particolare provvedimento il ministero non godeva della fiducia della camera e quindi dell’intera nazione di cui i deputati erano i rappresentanti stabilendo che la legge dovesse essere sottoposta al voto di fiducia[. La Costituzione non prevedeva una simile eventualità. Le disposizioni costituzionali relative ai ministri, però, erano molto generiche.

Stabiliva l’art. 71: “I ministri sono responsabili“, senza per altro specificare con chiarezza nei confronti di chi, aprendo, quindi, ad interpretazioni elastiche del testo, per cui la possibilità del voto di fiducia avrebbe potuto trovare spazio. Da una parte il governo volle attenersi ad un’interpretazione stretta della Carta, perciò il re poteva nominare e revocare i ministri di sua scelta senza bisogno del consenso del Parlamento dovendoli rinviare alle camere nel solo caso di tradimento (art. 74)[. I liberali, invece, avrebbero voluto far evolvere il regime verso un parlamentarismo che la Costituzione non aveva esplicitamente previsto, essi ritennero che il ministero dovesse necessariamente avere la fiducia della maggioranza della camera dei Deputati. Il re dichiarò che i deputati avevano violato in modo palese la Costituzione. I contrasti non si appianarono e il conflitto tra governo e deputati fu risolto il 12 marzo da Ferdinando II che sciolse la camera e indisse nuove elezioni che non ebbero mai luogo.

Il re licenziò il ministero e nominò presidente del consiglio e ministro delle finanze il lucano Giustino Fortunato, ex aderente alla Repubblica Napoletana e al governo murattiano, il quale inaugurò una politica fortemente assolutista. Più di mille municipi mandarono delle petizioni per invitare il re a sospendere la Costituzione, ritenuta ormai, da gran parte del popolo, come fonte di disordini. Iniziarono i processi contro i responsabili dei moti del 15 maggio, furono abrogate le poche leggi elaborate dal parlamento e tornò in uso la tradizionale bandiera nazionale bianca con lo stemma dei Borbone. La Costituzione fu sospesa ma non abrogata: così fallì il primo esperimento costituzionale italiano del 1848.

L’ultimo decennio

Tra il 1849 e il 1851, a causa dell’inasprimento reazionario portato avanti da Ferdinando II, molti andarono in esilio; tra rivoluzionari e dissidenti, circa duemila persone furono incarcerate nei penitenziari del regno borbonico. Va ricordata la dura repressione effettuata in Sicilia dopo la fine della rivoluzione indipendentista.

Il politico inglese William Ewart Gladstone, dopo aver soggiornato, per circa quattro mesi tra l’autunno del 1850 e l’inverno del 1851, a Napoli, scrisse due lettere al primo ministro inglese George Hamilton Gordon, in cui descriveva la «terribile condizione» del Regno delle Due Sicilie, definito la «negazione di Dio». Il primo ministro Giustino Fortunato venne avvertito delle lettere da Carlo Ruffo, ambasciatore borbonico a Londra, ma Fortunato non gli rispose e non informò il re. Questa manchevolezza inferocì Ferdinando II che lo licenziò immediatamente e in lui maturò il sospetto che Fortunato non avesse mai dimenticato il suo passato liberale e avesse di proposito favorito la circolazione delle lettere.[

Le accuse di Gladstone, tuttavia, suscitarono forti dubbi ed ebbero anche diversi tentativi di confutazione in Italia ed in Europa. Nonostante ciò, le sue descrizioni sul presunto maltrattamento dei Borbone ai danni dei detenuti si diffusero nell’intera Europa. Successivamente, secondo quanto riportato da alcuni autori, lo stesso politico inglese avrebbe ammesso che quelle lettere erano state scritte senza una diretta conoscenza dei fatti. La conseguenza delle lettere di Gladstone fu, secondo talune fonti revisioniste, una “sensibilizzazione” dell’Europa di fronte alla questione italiana nel Regno delle Due Sicilie a favore della politica di Camillo Benso, conte di Cavour.

Il Governo inglese, precedentemente alleato dei Borboni e complice nella repressione della Repubblica Napoletana del 1799, si sarebbe interessato a colpire lo Stato per imporsi nuovamente nei commerci legati all’importazione dello zolfo siciliano. Ferdinando II avrebbe cercato di limitare l’influenza britannica in tale ambito. Di fronte all’ostinazione del Re nel rifiutare i consigli di Francia e Inghilterra, i due paesi richiamarono i loro ambasciatori nel 1856. Vero è che tra il 1849 e il 1851, tra rivoluzionari e dissidenti, circa duemila persone furono incarcerate nei penitenziari del regno borbonico con l’accusa di essere dei cospiratori, praticamente quasi tutta l’intelligencija del Regno. Dopo il 1848 tutte le scuole private di Napoli furono chiuse, compresa quella di De Sanctis, e l’istruzione fu affidata al clero. In politica estera il Regno delle Due Sicilie attuò un programma isolazionista, soprattutto per evitare ingerenze nella politica di repressione del movimento liberale.

In campo economico si ispirò al mercantilismo seicentesco di Colbert in un mondo radicalmente mutato. La Rivoluzione industriale inglese di fine Settecento aveva ormai contagiato l’intera Europa e il libero scambio era la regola alla base dell’economia vincente. Ferdinando II si ostinò nel perseguire il protezionismo, soprattutto nel settore dell’industria siderurgica (dazi fino al 25% sulle merci di importazione) provocando la ritorsione di Francia e Inghilterra sui prodotti agricoli del Regno, settore trainante della debole economia delle Due Sicilie. Soprattutto l’olio di oliva, che veniva usato anche come lubrificante per le macchine industriali e per fabbricare il sapone, e il vino subirono forti contraccolpi.

Nel 1852 il re si stabilì momentaneamente a Lagonegro,uno dei 4 Capoluogi lucani del Regno.”Distretto di Lagonegro” dove adottò una lunga serie di provvedimenti tendenti a perfezionare l’assetto organico, addestrativo, operativo e logistico delle forze di terra e di mare con partecipazione alle parate, nelle caserme e durante le marce dei reparti, rendendosi molto gradito alle truppe. Nell’autunno del medesimo anno per l’appunto Re Ferdinando volle che la campagna addestrativa per l’esercito venisse svolta con particolare risalto in Calabria con un contingente formato da due divisioni, otto squadroni di cavalleria e venti pezzi di artiglieria, concentrati a Lagonegro.

L’8 dicembre 1856, giorno dell’Immacolata Concezione, Ferdinando II assistette a Napoli alla Santa Messa con tutta la famiglia, gli alti funzionari governativi e moltissimi nobili del suo seguito. Dopo la celebrazione, il sovrano passò in rassegna a cavallo le truppe sul Campo di Marte. In quel momento, il soldato calabrese di idee mazziniane Agesilao Milano, che accusò Ferdinando II di essere un «tiranno da cui doveva liberarsi la nazione»,  si lanciò sul monarca e riuscì a ferirlo con un colpo di baionetta. Arrestato e condannato a morte, gli fu negata la grazia sovrana e il re rifiutò di ricevere personalmente il suo avvocato difensore.  Milano fu impiccato in Piazza del Mercato il 13 dicembre dello stesso anno. Ferdinando II rimase scosso dal fallito attentato, preoccupato che la baionetta dell’attentatore fosse avvelenata. A Campo di Marte, il re fece erigere, come memoria, una chiesa in onore della Concezione e una piccola cappella nel punto dove avvenne il tentato regicidio. Le intendenze del regno obbligarono tutti i comuni a dare un contributo per le costruzioni, sebbene alcuni si rifiutarono, come Corleto Perticara (Potenza) per volere di Carmine Senise.Qualche anno dopo, il Re chiese al chirurgo Capone di controllare se la ferita al petto infertagli dal Milano si fosse infiammata. Il chirurgo lo rassicurò che la cicatrice era intatta e senza segni di infiammazione e suppurazione, comunicando ciò, qualificò infame Agesilao Milano; il Re rimproverò il chirurgo: «non si deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l’ho perdonato. E basta così». Secondo alcuni Ferdinando non guarì mai completamente dalla ferita e la sua morte, avvenuta poco meno di tre anni dopo (il 22 maggio 1859 morì a Caserta), sarebbe dovuta a setticemia.

Secondo altre fonti, la malattia di Ferdinando II dipendeva dall’obesità. Secondo i referti medici a stento riusciva a stare in piedi, ma nonostante i medici lo sconsigliassero compì un viaggio nella Puglia iniziato da Caserta l’8 gennaio 1859 e terminato il 7 marzo 1859 a Bari per il matrimonio del figlio. In Bari si celebrò il matrimonio religioso del figlio primogenito ed erede al trono Francesco, Duca di Calabria con Maria Sofia di Baviera, sorella dell’Imperatrice Elisabetta d’Austria, detta “Sissi“, matrimonio già avvenuto per procura, senza che gli sposi si fossero mai conosciuti. Il rito religioso, celebrato in quella città ove Maria Sofia era giunta per mare, partendo da Trieste, fu turbato proprio dal notevole aggravarsi della malattia del Re iniziata già durante il viaggio, tanto che Ferdinando non poté assistere al matrimonio. Il medico di corte Cav. Ramaglia aveva capito ben poco della gravità del male e le condizioni di Ferdinando II peggioravano continuamente.

Pertanto fu invitato dall’Intendente di Bari Cav. Mandarini il miglior medico della Provincia, Nicola Longo di Modugno, allievo prediletto del Prof. Domenico Cotugno, l’Ippocrate napoletano. Questi, dopo aver visitato minuziosamente Ferdinando II, diagnosticò un ascesso femorale inguinale, pieno di materia grigia purulenta, e propose, dopo aver tentato inefficacemente una cura con l’uso di risolventi a base di mercurio, una operazione chirurgica per asportare manualmente la materia. Tutti gli astanti, la Regina Maria Teresa d’Asburgo-Teschen, il Duca di Calabria, l’Intendente Cav. Mandarini, il medico Ramaglia, inorridirono al solo pensiero che fosse eseguita una operazione a un Re, oltretutto da un medico che aveva grande fama di liberale, essendo iscritto alla Carboneria dal 1817.

Nicola Longo avvertì Ferdinando e i presenti che, se non fosse stata fatta l’incisione all’inguine a breve, ci sarebbe stata una funesta conclusione della malattia. “Maestà” disse il Longo “la sventura vostra in questa contingenza è l’essere Re; se foste stato un povero infelice gettato in un letto d’ospedale, a quest’ora sareste guarito“. Rispose Ferdinando in napoletano: “Don Nicola, adesso mi trovo sotto, fate ciò che volete, ma salvatemi la vita!“. Dopo aver titubato e rinviato l’operazione per quasi un mese, Ferdinando II e i reali decisero all’improvviso di ripartire da Bari alla volta di Caserta il 7 marzo 1859, nonostante il Longo fosse contrario a tale scelta. Giunto Ferdinando II in condizioni ormai gravissime a Caserta, tutti i medici di corte, Trinchera, Capone, De Renzis, Lanza, Palasciano, dopo aver riconosciuto la giusta diagnosi e cura del medico Nicola Longo, e soprattutto che l’operazione era necessaria dal primo momento, tentarono inutilmente la stessa operazione proposta dal Longo due mesi prima, ma ormai era troppo tardi.

Sui suoi ultimi giorni si racconta un aneddoto interessante che evidenzia il carattere dell’uomo: in quei giorni il Granduca Leopoldo di Toscana era stato costretto a lasciare Firenze, così suo figlio Francesco entrò nella camera del padre annunciando “Papà, hanno cacciato zi’ Popò!” e il Re chiese “Quale zì Popò?” e quando Francesco gli disse “Zi’ Popò di Toscana” Ferdinando disse seccamente “Che coglione!”.[

Ferdinando II spirò il 22 maggio 1859, trasferito nel 1858 dalla Diocesi di Oppido Mamertina a quella di Ariano. Poco prima della sua morte era iniziata la seconda guerra di indipendenza che vedeva schierati Vittorio Emanuele II di Savoia e Napoleone III di Francia contro Francesco Giuseppe I d’Austria. Tra il 1860 e il 1861, la spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi portò alla caduta del Regno delle Due Sicilie che fu annesso al neonato Regno d’Italia.

Economia e politica

Nascono, sotto la protezione e con l’intervento diretto dello Stato, le prime industrie del regno, soprattutto del settore tessile e metallurgico. Anche l’agricoltura e l’allevamento vengono sviluppate attraverso la creazione di appositi centri studi statali e un sistema di finanziamento alla piccola proprietà rappresentata dai Monti Frumentari. Secondo alcune statistiche[, il Regno produceva, rappresentando circa un terzo della popolazione, più del 50% dell’intera produzione agricola italiana e per quel che riguarda l’allevamento, il numero dei capi, fatta eccezione per l’allevamento bovino, era ben superiore a quello del resto d’Italia sia in valore assoluto che in rapporto alla popolazione.

Ferdinando II adottò un modello politico-economico di tipo protezionistico, ispirandosi in gran parte al modello francese di Jean-Baptiste Colbert, che aveva consentito la nascita dell’industria transalpina, propendendo decisamente per un intervento diretto dello Stato nella vita economica del paese, ma limitando gli investimenti ai surplus di cassa provenienti dalle esportazioni agricole ed evitando l’indebitamento pubblico e l’aggravio della pressione fiscale mantenuta fra le più basse d’Europa. Diede un importante impulso alla Real Marina del Regno delle Due Sicilie.

Un modello di sviluppo lento, in quanto gli investimenti si limitavano alle somme presenti in cassa senza ricorrere all’indebitamento bancario, ma che tendenzialmente metteva al riparo da rischi e sovraccarichi fiscali per la popolazione. Ferdinando II viene indicato dai nostalgici del regno borbonico come l’ultimo rappresentante dell’assolutismo illuminato del XVIII secolo.

Una valutazione discutibile, se si pensa al ruolo preponderante che ebbe la Chiesa cattolica, ed i suoi esponenti più conservatori nella politica e nell’amministrazione del Regno. Certo Ferdinando II fu un sovrano assoluto, ma questo gli proibì di capire appieno il movimento del suo tempo. Secondo alcuni, la caduta del Regno fu anche colpa della sua manchevolezza di guardare al futuro e avrebbe potuto guidare il moto di liberazione italiano, ma preferì rintanarsi in un ostinato sogno di immobilità.

A onore di Ferdinando va detto che, a differenza di suo padre e di suo nonno, non eluse mai i problemi del regno e fu piuttosto attento agli affari di Stato, tuttavia la sua mentalità (che il saggista Harold Acton definì tipica del “paterfamilias partenopeo, possessivo, cosciente del suo potere e della sua virilità”) gli impedì di cogliere il momento e fece perdere al Regno delle Due Sicilie la possibilità di assumere il ruolo di stato-guida dell’Italia al posto del Piemonte.

Matrimoni e discendenza

Si sposò per la prima volta il 21 novembre 1832 a Genova con la principessa Maria Cristina di Savoia, quarta figlia del re Vittorio Emanuele I di Savoia. Dal matrimonio nacque:

Ferdinando II e Maria Cristina erano cugini di secondo grado poiché entrambi bisnipoti di Francesco I di Lorena e di Maria Teresa d’Austria. Maria Cristina morì agli inizi del 1836, quindici giorni dopo la nascita del loro unico figlio Francesco, che successe al padre sul trono. Donna di eccezionale carità e spirito religioso, Maria Cristina di Savoia è stata beatificata nel 2014.

Si sposò per la seconda volta il 9 gennaio 1837 a Trento con l’arciduchessa Maria Teresa d’Austria (1816–1867), figlia dell’arciduca Carlo, Duca di Teschen, a sua volta figlio di Leopoldo II, e sorella dell’Arciduca Alberto. Ferdinando II e Maria Teresa erano doppi cugini di secondo grado in quanto bisnipoti di Francesco I di Lorena e di Maria Teresa d’Austria e di Carlo III di Spagna e di Maria Amalia di Sassonia. La coppia ebbe dodici figli, di cui otto raggiunsero l’età adulta:

Ebbe anche un figlio naturale Don Gaetano al quale fu dato il cognome Petriccione (che apparteneva ad un alto funzionario del Regno) che per maritali nomine acquisì il titolo di Duca Giordano d’Oratino.