Anello micromosaico pappagallo

Anello micromosaico pappagallo

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Bellissimo micromosaico su cassina di rame raffigurante un pappagallo su un ramo montato in oro ad anello.

Manifattura romana attribuibile a Giacomo Raffaelli o al suo atelier, seconda metà del XVIII sec. 1770/80 ca.

Dimensioni cm 3 x 2 circa - misura anello 15 circa.

Stato di conservazione eccellente commisurato all’epoca, difetti.

Esaurito
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Giacomo Raffaelli (Roma, 2 febbraio 1753 – Roma, 11 ottobre 1836) :

Giacomo Raffaelli era figlio di Paolo (1731-1790) e di Margherita Solimani. Fu battezzato nella chiesa di San Lorenzo in Damaso. I Raffaelli erano fornaciari romani e nella seconda metà del Seicento fornivano al Vaticano materia vitrea, sotto forma di tessere quadrate a colori, per fare mosaici. Nelle loro fornaci i Raffaelli producevano dunque robba che serve per fare li mosaichi, cioè smalti vitrei tagliati a piastrella bianca o colorata, come il lattimio bianco, il minio e i fogli d’oro. Alla morte di Paolo Raffaelli, la fornace fu ereditata dai suoi tre figli: Francesco, Antonio e Giacomo – il primogenito – che la dirigeva. «Ordino ancora – si legge nel testamento di Paolo – e comando, che tutti li Lavori di Musaico, che dovranno farsi tanto per le Paste che si servono in d° negozio che per l’altre che possano sopravvenire debbano farsi nel Negozio med° sotto la direzione di d° Giacomo.» Giacomo Raffaelli trasferì la bottega, prima in Piazza di Spagna, poi in via del Babuino, 92. Con l’aiuto di Cesare Aguatti, intorno al 1775 ideò il mosaico a microtessere, detto filato o romano, ricavandolo da un composto siliceo che, reso incandescente, poteva essere filato e poi tagliato in segmenti minuscoli. Il micromosaico era un’idea per costruire una grande illusione, cioè rendere stabili i capolavori, anche i più deperibili, e ridurli di dimensione a tal punto, da renderli opere d’arte da indossare o da portare in tasca. Egli realizzava a micromosaico minuscole placchette con paesaggi, con monumenti romani (a volte in forma di capriccio), con fiori, con uccelli, con soggetti religiosi o mitologici. Queste placchette, montate entro cassettine di metallo, o di vetro o di marmo o di legno o di pietra dura, venivano poi applicate su tabacchiere o montate su spille, su elementi per collane, su anelli, su cofanetti, su bottoni: diventavano costosi souvenirs, per i viaggiatori del Grand Tour. Giacomo Raffaelli espose per la prima volta micromosaici nel suo atelier di piazza di Spagna, in occasione dell’Anno Santo 1775. Tipico era il motivo di cornice, da lui usato per rifinire i suoi micromosaici: una catenella di tessere bianche con all’interno tessere blu, tra due file di tessere rosse. L’invenzione ebbe molti seguaci e fra il 1824 e il 1830 l’area tra piazza di Spagna e piazza del Popolo conteneva 68 attività commerciali legate al micromosaico.La sua placca circolare con Le colombe di Plinio, datata 1778, è al British Museum e un altro esemplare si trova a Roma, al Museo Napoleonico: il tema fu da lui ripetuto più volte. Un Cardellino, medaglione in micromosaico, del 1778, si conserva nel Museo di Santa Giulia, a Brescia.Nel 1787 Stanislao II Augusto Poniatowski, ultimo re di Polonia, lo nominò nobile polacco e suo consigliere per le Arti Liberali. Fervente repubblicano, Giacomo fu coinvolto a Milano, nel 1808, in moti politici anti-napoleonici e fu arrestato, ma subito rilasciato.Gran parte degli smalti vitrei prodotti della fornace Raffaelli, a partire dal 1804 furono esportati a Milano, dove Giacomo aveva aperto una scuola di arte musiva nell’ex convento di San Vincenzino, collegata all’Accademia di Brera, allora diretta da Giuseppe Bossi. Con decreto del 24 aprile 1807 il viceré Eugenio Beauharnais gli ordinò una copia in micromosaico, a grandezza originale, del Cenacolo di Leonardo da Vinci. Il lavoro, cui collaborarono il figlio Vincenzo e i mosaicisti Giuseppe Roccheggiani e Gaetano Ruspi, durò molti anni e fu possibile grazie alle tessere di micromosaico, prodotte dalle fornaci Raffaelli e venute da Roma. Questa scritta, posta ai piedi del mosaico, celebrò sia l’arte del mosaicista, sia le intenzioni del committente di preservare, in un’opera musiva stabile, l’immagine dell’affresco di Leonardo che già allora era ridotto in pessime condizioni:

MVSIVVM OPUS IACOBI RAFFAELLI QUO IN COENA DOMINI A LEONARDO VINCIO MEDIOLANI MIRIFICE PICTA MCDXCVII TEMPORVM HOMINVMQVE INIVRA PAENE DELETA POSTERITATI SERVARETVR

L’opera era destinata al Louvre, ma dopo la caduta di Napoleone fu rivendicata dagli Asburgo, che l’11 agosto 1818 la portarono a Vienna. Gli italiani ivi residenti chiesero che il mosaico dell’opera leonardesca fosse posto nella chiesa dei Minoriti di Vienna, sopra un altare realizzato dall’architetto Federico Stache. Il micromosaico fu trasferito nella nuova sede il 26 marzo del 1847. A Brera, nel 1814, fu esposta una scelta di oggetti d’arte, prodotti da Giacomo Raffaelli e dai suoi allieviː un orologio decorato con marmi, pietre dure, micromosaici e bronzi; piani di tavolini in marmo bianco, con incastonati elementi a micromosaico e in agata, lapislazzulo, corniola e malachite; quadri a micromosaico rappresentanti uccelli. Nel 1815 Giacomo Raffaelli tornò a Roma. Lo zar di Russia lo nominò suo consigliere e da lui acquistò quadri a micrmosaico e tavoli con piano in micromosaico che oggi sono al Museo dell’Hermitage. Giacomo operò il distacco del mosaico della basilica di San Paolo fuori le mura, per restaurarlo, dopo l’incendio del 1823 che aveva devastato la basilica. Fu eletto accademico di San Luca e fu sepolto a Roma, nella chiesa di San Stanislao della Nazione polacca, in via delle Botteghe Oscure. La fornace dei Raffaelli continuò a produrre micromosaici per la gioielleria e smalti per la Fabbrica di San Pietro, fino al 1864, sotto la direzione di Vincenzo Raffaelli, figlio di Giacomo.

Il micromosaico – chiamato anche mosaico minuto o mosaico in miniatura o mosaico filato – è una tecnica di produzione del mosaico, presentata per la prima volta a Roma nell’Anno Santo 1775, nella bottega del mosaicista Giacomo Raffaelli. Questa tecnica raggiunge il suo apice a metà del XIX secolo. La nuova tecnica del micromosaico ha origine all’interno dello Studio Vaticano del Mosaico, della veneranda Fabbrica di San Pietro, un cantiere dove si formano i mosaicisti che decorano o restaurano gli interni della basilica di San Pietro con smalti vitrei colorati, tagliati in forma quadrata e fissati con mastice: il mosaico è una immagine da guardare da lontano, composta da un materiale non deperibile e meno soggetto della pittura al degrado, per infiltrazioni di umidità e per impurità nell’ambiente. L’arte millenaria del mosaico, fortemente coloristica e decorativa, ha avuto uno straordinario sviluppo dall’età romanico-bizantina al XIII secolo, per poi cedere gradatamente il passo all’affresco. L’innovativa tecnica del micromosaico è stata possibile grazie alla produzione di tessere minute e di forme diverse, adatte alla composizione di manufatti di ridotta dimensione e da vedere a distanza ravvicinata, come soprammobili, gioielli, pettini decorati, parures in astuccio, tabacchiere, cofanetti, fermacarte, calamai, bottoni, scatoline, piani di tavolini, frontali di caminetti e di stipi. Il micromosaico sostituiva i tradizionali intarsi in legno, in avorio, in pietre dure. Entrato nel fiorente commercio romano del souvenir, il micromosaico incantò gli stranieri, in visita in Italia per il Grand Tour e attirò i collezionisti più esigenti. Del mosaico conservava la semplificazione del disegno e il forte contrasto dei colori – ottenuto con l’utilizzo di micro tessere di smalto vitreo – e il gusto per la decorazione. Grazie alla rivalutazione delle arti meccaniche, rispetto alle arti liberali, nel settecento inoltrato viene superata la differenza tra arte e artigianato e rivalutato quindi anche il mestiere di mosaicista, che da quel momento in poi è considerato un artista. Intorno al 1730 il fornaciaro  Alessio Mattioli fondeva smalti opachi – quindi impermeabili alla luce – in una vasta gamma di colori, attraverso vari processi di rifusione della pasta vitrea e riuscendo a non alterarne la tinta. Le sue tecniche furono riprese e perfezionate dal mosaicista Giacomo Raffaelli, discendente da una famiglia di fornaciari, cui si attribuisce l’invenzione del micromosaico, con l’aiuto del mosaicista Cesare Aguatti. Egli rifondeva gli smalti, conservandone la tinta e rendendoli filabili quando erano ancora incandescenti. Lo smalto è realizzato mediante fusione a 800-900° C di una opportuna miscela di vetro, colorato con ossidi metallici nelle tinte madri o primarie giallo, rosso e blu: dalla combinazione di questi colori si possono creare paste vitree di diverso colore. L’impasto viene poi filato in bacchette di sezione inferiore al millimetro e tagliato (con pinzette e con lime) in frammenti quadrangolari di diversa dimensione e anche in formati tondi o irregolari. Quando lo smalto è ancora caldo e quindi parzialmente malleabile, si possono creare tessere lievemente arcuate. Si arriva a realizzate tessere di un decimo di mm. Al contrario, le tessere del mosaico tradizionale sono elementi quadrangolari della superficie di circa 1 cm quadrato e ricavati, con gli strumenti classici tagliolo e martellina, da pizze di materiale vitreo, schiacciato ancor caldo tra due piani metallici lisci. Le micro tessere sono poi accostate in file parallele e fissate assieme – grazie a un mastice all’olio – su una superficie di rame, di vetro opaco o di pietra, ma anche su ebano, tartaruga, marmo antico, vetro opalino o pietra dura. Il mastice all’olio secca lentamente e resta plastico per qualche giorno: sono quindi possibili correzioni e sostituzioni di tessere. Chiamato anche stucco romano, il mastice è una miscela di calce spenta, di polvere di travertino e di olio di lino. Il supporto del micromosaico è una placca con bordo, dentro cui è spalmato il mastice. Per micromosaici destinati alla gioielleria, si usa una placca di vetro opaline con bordo smussato, per poter facilmente procedere alla incastonatura. Il marmo nero del Belgio, il porfido, il commesso fiorentino servono come supporto per micromosaici di maggiore grandezza, come ripiani di tavolini tondi e quadretti da incorniciare. Per rifinire il micromosaico vi si spalma sopra uno strato di cera e poi si leviga più volte, con smeriglio sempre più fino. Penetrando nelle fessure del micromosaico, la cera ne uniforma e lucida la superficie. Soggetti tipici del micromosaico sono le rovine romane, Tivoli, via Appia, San Pietro e il Colosseo, scene mitologiche e religiose, riproduzioni di antichi mosaici tra cui quelli Capitolini, paesaggi fiori e animali, scene di genere, anche ricavate da incisioni di Bartolomeo Pinelli, perfino scene tratte dalla Divina Commedia e da I Promessi Sposi. Fonte di ispirazione sono stati i due tomi con vedute di antichità, incise da Domenico Pronti. A metà dell’Ottocento, a Roma, centro di produzione del mosaico minuto, decine di botteghe che vendono micromosaici si concentrano tra via Condotti, piazza di Spagna e via del Babuino. A fine ottocento micromosaici si producono anche a Murano. Una diversa scuola di micromosaicisti, a metà dell’Ottocento intraprende la strada di un ritorno alla tradizione delle tessere quadrate, ma minuscole e tutte di identica dimensione: si utilizzano per realizzare piccole vedute, con ruderi e paesaggi romani, utilizzando anche la tecnica del malmischiato che permette di ottenere colori diversi sulla stessa filatura di smalto. Alla fine dell’Ottocento inizia la decadenza e, per velocizzarne l’esecuzione, si compongono micromosaici con tessere di grandezza maggiore, intervallate da spazi riempiti di cera colorata. L’uso di tessere circolari dà un curioso effetto divisionistico: invece di camuffarsi in pennellata, ogni tessera mostra apertamente la sua struttura. Oltre alle preziose raccolte del Museo Napoleonico, dei Musei Vaticani, dell’Hermitage e del Los Angeles County Museum of Art, a Roma ci sono due importanti collezioni di miscromosaici: la collezione dell’azienda “Savelli Arte & Tradizione”, produttrice e venditrice di articoli religiosi, che possiede circa 200 pezzi antichi di qualità elevata, in particolare quadretti a micromosaico con vedute romane, e la collezione “Castellani”, ora al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia. Fortunato Pio Castellani (1794-1865), orafo specializzato nella riproduzione del gioiello antico romano, ricostruì la tecnica della granulazione (microsfere d’oro, saldate con un liquido chiamato crisocolla, a base di verderame e di malachite) e la filigrana. Gioielli da lui eseguiti, con montature in oro di micromoscaici con disegno derivato da mosaici romani, o ravennati o di Costantinopoli, sono riconoscibili per l’uso di queste tecniche orafe. La ditta dei “Fratelli Traversari”, nata a fine ottocento, realizza ancora oggi gioielli con micromosaici, montati su ottone o su argento ed è considerata erede della tradizione del micromosaico romano. La tendenza va verso un ingrandimento delle tessere. In Vaticano, nel Braccio di Carlo Magno, nel 1986 è stata organizzata una mostra di micromosaici.